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Giuseppe Pipino

 RETICOLATO IDROGRAFICO, ARGILLE E FRANE

DI CASAMICCIOLA TERME (ISOLA D’ISCHIA)

 

            Frane e  dissesti idrologici fanno parte, assieme ai terremoti, della storia di Casamicciola (Terme dal 1956).  L’ultimo evento alluvionale, del 26 novembre 2022, che ha fatto ben 12 vittime e danni incalcolabili, imporrebbe, ancora una volta, drastici provvedimenti per mettere in sicurezza i versanti e garantire il libero scorrimento al mare delle torbide eccezionali. Per questo c’è ovviamente bisogno di approfondita conoscenza del territorio e delle cause che provocano, o concorrono a provocare, frane e scoscendimenti in condizioni normali e in occasione di eccezionali eventi atmosferici, traendo gli opportuni insegnamenti da quelli precedenti, ma non si può certo dire che i ricorrenti piani di intervento, più o meno attuati, abbiano tenuto nel debito conto la costituzione del territorio e la sua storia. 

            Non si può fare a meno di notare, ad esempio, quanto siano lacunosi e confusionari i riferimenti alla toponimia del reticolato idrografico e alle storiche variazioni dei valloni-alvei, localmente chiamati cave.  Manca, poi, qualsiasi riferimento alla presenza dell’argilla e al ruolo che questa assume nei dissesti, benché sia ben nota, d’altra parte, la consistenza e l’utilizzo storico del prodotto, il quale è anche stato oggetto di una pubblicazione specifica a carattere storico-archeologico (BUCHNER G. 1995) che, però, confonde assieme tipi diverse di argille e ne ignora giacitura e composizione (PIPINO 2022, pag. 20). 

            Per mettere in sicurezza i versanti è necessario conoscerne le specifiche peculiarità, sia della parte più alta, sopra i 500 metri circa, ove affiorano le rocce del M. Epomeo e dei colli contigui, sia nella parte inferiore costituita quasi esclusivamente, in superficie, da materiale detritico franato in precedenza.  I “monti” sono costituiti prevalentemente da rocce di discreta durezza, ma intensamente fratturate e soggette a spezzettamenti per i normali fenomeni atmosferici e per i ricorrenti terremoti, tanto da aver subito, anche in periodo storico, significativi abbassamenti di quota (PIPINO 2022, pag. 31); alcune loro parti, inoltre, sono soggette ad intensi fenomeni di argillificazione, come vedremo, tanto da diventare poco coerenti e instabili.   Il materiale detritico che ricopre i versanti, ed è profondamente inciso dalle “cave”, è costituito da materiali eterogenei, quanto a natura e dimensione, e, oltre a contenere i prodotti argillosi di alterazione, nasconde localmente l’insidia rappresentata dai banchi poco profondi. di argilla sedimentaria.  La  presenza dell’argilla, nelle torbide di scorrimento, ne aumenta notevolmente la densità e, quindi, le capacità di trasporto, a valle, anche di enormi massi prodotti da precedenti eventi sismici o isolati dall’erosione, e franati lungo i canaloni-cave.

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            Il reticolato idrografico che interessa Casamicciola è mutevole nel tempo e nello spazio, e  mutevoli sono anche le denominazioni dei singoli valloni, o cave, cosa che rende difficile la correlazione tra i ricorrenti eventi franosi.  In relazioni comunali recenti, ad esempio, vengono citati dissesti nel vallone chiamato con l’antico nome di Negroponte, senza specificare se ci si riferisce al ramo Ombrasco o a quello che, in altre relazioni, è chiamato indifferentemente Fasaniello o Ervaniello; in una illustrazione del Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania, pubblicato nel 2002, la “cava Fasaniello” è segnata ad ovest della “cava Sinigallia”, dove si trova, invece, la “cava Celario”;  in altre relazioni sono segnalati rami scomparsi o non più localizzabili con certezza, come quello del Tamburo che ha avuto una certa notorietà in passato (PIPINO 2022b); in molte altre sono segnati, come attuali, gli alvei che attraversano l’odierno centro abitato, senza avvertire che, in effetti, sono da tempo stati trasformati in strade, e le acque immesse nelle fognature senza alcun accorgimento.

            In una relazione scritta a seguito di accurata verifica dei danni causati dall’alluvione del 10 novembre 2009, il noto geologo Franco ORTOLANI dell’Università di Napoli faceva notare, anche con foto (nn. 6 e 19),  che le parti finali delle cave Sinigallia ed Ervaniello erano trasformate in alvei-strade, che gli imbocchi delle fognature erano “…assolutamente inadeguati a smaltire i flussi fangosi inglobanti massi di roccia e alberi d’alto fusto” ed erano stati completamente ostruiti nel corso dell’evento, e che, a monte, il diaframma di spartiacque fra  la cava Senigallia e “…l’alveo affluente della Cava Fasaniello” (evidentemente l’Ombrasco), era stato pericolosamente assottigliato (n. 14).  Nelle conclusioni evidenzia che “…Nonostante queste premesse di conoscenza delle problematiche idrogeologiche, sorprendentemente, il Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico dell’Autorità di Bacino Nord Occidentale della Campania pubblicato nel 2002 e vigente il 10 novembre 2009 non considera a rischio frana né a rischio idraulico la zona di Piazza Bagni”, e afferma, con forza: “L’Autorità di Bacino deve correggere il PAI”. In particolare, “…dovrebbe essere presa in considerazione la disconnessione idrogeologica tra base dei versanti del Monte Epomeo e inizio dei valloni nonché la realizzazione di idonei interventi lungo gli alvei tesi a trattenere i corpi contundenti (massi e tronchi d’albero) e parte dei flussi fangosi…Per quanto riguarda il rischio idrogeologico connesso ai flussi fangoso detritici incanalati nelle cave che si immettono nelle strade urbane si sottolinea che il problema persiste e non sarà facilmente risolvibile, specialmente se non si attiveranno buoni  e validi progetti e significativi interventi finanziari”.

            Per quanto riguarda l’ultimo tratto del bacino imbrifero di Casamicciola, quello che, dopo aver raccolto i sub-bacini Senigallia, Ervaniello e Puzzillo, si gettava a mare dopo un breve percorso “cittadino”, risulta difficile risalire persino al nome. IASOLINO (1588) non ne parla. D’ALOISIO (1757, pag. 50), che pure esegue prove di portata alla foce, si limita a dire: “…di ventiquattro fonti, li quali nel distretto di questa nostra Terra di Casanizzula gettono acque di continuo, solo quindici sgorgando le lor acque in un sol rio, queste per istrada unite assieme  scolano in mare”. 

            Da documenti pubblicati da Giovanni CASTAGNA (2009)  si ricava che il rio aveva non solo un nome, ma anche un sinonimo, seppure popolari e comuni.  Nel 1564 il convento degli Agostiniani affittava al Magnifico Marco Antonio Rabicano «un molino diruto con corso d’acqua, case ed orticelli, siti nelle pertinenze di Casamicciola dove volgarmente si dice La Pezza”, nonché “…la Cava dove corre la lava, che d’anni 50 non macina per essere stata divertita altrove l’acqua dal Sig. Marchese di Pescara, e la Lava dirupò mesi scorsi il predetto molino”.  Il 20 giugno 1767, lo stesso convento, vendeva a Enrico Doblet della Repubbica di Liegi una parte di territorio detto Le Pezze, “…proprio dalla parte della lava dell’acqua corrente” per costruirvi un «un molino per uso pubblico dell’Università di Casamicciola e forsi di tutta l’Isola». Nel settembre 1777 Pietro Mennella donava a tre dei suoi figli “…due Piazze contigue”, una delle quali  sita “ nel luogo detto La Lava…confinante con l’acqua seu lava corrente”.

            Il nome, che può suonare strano ai più, non lo è per chi, cresciuto nel rione Sanità a Napoli, ha reminescenze  adolescenziali della “lava dei Vergini”, il flusso torrentizio di torbida che, di tanto in tanto, fino agli anni ’60 del Novecento, inondava il borgo con fango e detriti, e ricorda le storie paurose raccontate sui passati eventi, nonché i radicati modi di dire come ad esempio, parlando di persona che non si è più vista, “se l’è purtat’a lava” (“se l’è portato via la lava”, nel senso di “è sparito”).  E i punti in comune di Napoli con Ischia non si fermano qui. Infatti, la città antica era nota per i non pochi torrenti che l’attraversavano e che sono man mano spariti o tombati a seguito alla crescente urbanizzazione.  I torrenti avevano origine dalle colline che circondano la città, e i valloni dai quali discendevano si chiamavano Cavoni, e non perché Napoli è esagerata in tutto: con lo stesso nome erano chiamati molti altri presenti in tutta l’Italia Meridionale e, per Napoli, c’era la necessità di distinguerli dalle cave di estrazione del tufo per l’edilizia urbana, la maggior parte delle quali si aprivano proprio nei cavoni.  Il toponimo è parte integrante della vecchia toponomastica partenopea: in buona parte è stato sostituito da nomi moderni, ma di quelli scomparsi rimane il ricordo, oltre che nei documenti storici, nella parlata popolare dei più vecchi. Questi si ostinano, ad esempio, a chiamare Cavone di Piazza Dante l’odierna Via Francesco Saverio Correra, la quale in precedenza si chiamava Strada del Cavone a Sant’Eframo Nuovo e iniziava dalla collina dell’ Infrascata al Vomero, dove nel Seicento era stato costruito, dal Monastero di Santa Monica, il Fondaco del Cavone: sparita dalla toponomastica cittadina la Strada del Cavone (dove, tra gli altri, era nato il Generale Armando Diaz), restano comunque le sue I, II e III Traversa del Cavone e le Rampe del Cavone.

            Per i Vergini, il vallone inizia ai piedi delle colline dei Colli Aminei e di Capodimonte, dove ha pure inizio l’odierno Rione Sanità e dove sono ricordati il Cavone di San Gennaro (dei Poveri) e, poco a valle, il Cavone di San Vincenzo (BUCCARO 1991).  Vi scorreva un fiumiciattolo o, meglio, una torbida torrentizia, che, in periodo di intense precipitazioni, si arricchiva di fango e di detriti che devastavano, in particolare, il Borgo dei Vergini.  A valle vi si univano altre “lave” provenienti da zone vicine e, insieme, scorrevano al mare nell’antico quartiere non a caso chiamato Pendino, nel quale c’era il “Vico della Lava”, oggi Via Pietro Trinchera.  Nelle vicinanze sopravvivono i toponimi di tre stradine contigue, Vico Rotto al LavinaioVico Colonne al Lavinaio e Vico Ferze al Lavinaio che ricordano i lavori di irreggimentazione della locale ”lava” fuori dalle mura, in tempi angioino e aragonese.  E c’è ancora il Vico Molino al Lavinaio, in ricordo di quelli che, come risulta da carte del tempo, erano azionati dalle acque della “lava”.

               Anche dall’altra parte delle colline della Sanità si registrano toponimi relativi allo scorrimento di lave.  A Miano c’è  la frazione chiamata  Lava-Rocchetti e un documento del 1779 ci dice che vi si trovava il “…Cavone di Miano o sia letto della lava… Da questo girando a destra e camminando verso occidente per il suddetto Cavone, dopo passi 110, si giunge nella cuparella a destra denominata di S. Cesareo…Dalla cennata cuparella di S. Cesareo proseguendosi tortuosamente il cammino per lo stesso letto della lava, che costeggia il muro del Real Bosco di Capodimonte si giunge al 38º termine piantato in mezzo al medesimo letto di lava” (PORPORA 1779, cap. V e VI). Lungo il rettilineo bordo settentrionale del Bosco di Capodimonte si regista ancora la presenza della Chiesa di Santa Maria agli Angeli del Cavone e a non molta distanza, a San Pietro a Patierno, fino a non molto tempo fa c’era la Strada Lava, oggi Via Principe di Napoli.

            Secondo CORTELLAZZI E ZOLLI (1983) “lava” è una voce napoletana del XVII secolo che deriva dal latino “labem” (scivolamento) e significa “torrente d’acqua piovana”. Ad essi si rifanno, probabilmente, l’ Oxford Languages e il WordSense Dictionary che ne riportano l’etimologia  per una delle voci “lava”; la Treccani  e altri dizionari italiani si riferiscono, invece, soltanto alla lava vulcanica, e la fanno derivare dal latino “labes”, significante “cadutascivolamento”.  Stando a questi ultimi, si potrebbe credere che l’etimologia della nostra lava torrentizia derivi da quella vulcanica, ma è esattamente il contrario.  Infatti, la primissima nominazione di “lava” per il prodotto vulcanico, accolta poi universalmente, si deve a Francesco SERAO (1738, pag. 36) che la utilizza nella descrizione dell’eruzione vesuviana dell’anno precedente; e  lo stesso autore, nel descrivere il “Torrente, o sia Lava di Fuoco versata dal Vesuvio”,  specifica: “…quel profluvio di materie sciolte, e roventi, che i nostri chiamano Lava”.

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            Ritornando a Ischia, abbiamo visto che la “lava”, intesa come torbida torrentizia, è già attestata nel linguaggio popolare del Cinquecento, ma fa fatica ad essere accettata da autori del Settecento e successivi, per i quali la lava è quella vulcanica. Nessuno dei numerosi autori ottocenteschi che hanno scritto e divagato sulle acque termali d’Ischia la nomina, nemmeno quando  parlano specificamente del “…ruscello che… fugge attraverso una specie di burrone tortuoso, e va a gettarsi, come un torrente, nel mare, a distanza di solo mezzo miglio dai Bagni” (ULTRAMONTAIN 1822.  pag. 128). 

            Alla ”lava” accenna fugacemente, ma con occhio di vulcanologo, un medico inglese che esercita a Napoli e che perlustra l’isola dopo il terremoto del 1881: “…una massa molto estesa fu staccata dal terremoto e travolta nella gola sottostante, ostruendola completamente...Alcune settimane dopo il terremoto, quando sull'isola caddero delle piogge torrenziali, gran parte di questo materiale fu spazzato via dalla gola, inondando la parte bassa di Casamicciola di fango vulcanico o «lava d'acqua»” (JOHNSTON-LAVIS 1885, pag. 86). Poco più tardi abbiamo la denominazione “ufficiale” in un’opera “sui generis” che, in quanto tale, non incide sulle conoscenze topografiche dell’isola in generale e di Casamicciola in particolare, sebbene l’autore (CHAMPAULT 1906), convinto che Ischia sia l’isola dei Feaci descritta nell’Odissea, sia molto accurato nel ricercare e descrivere le singole località e, per la sua ricerca, si avvale della collaborazione di Jahnston-Lavis, nel frattempo assurto alla cattedra di Vulcanologia dell’Università di Napoli, e del geologo Artuto Issel dell’Università di Genova, oltre che dello storico ischitano Vincenzo Mirabella. 

            È il caso di ricordare che per molti studiosi di geografia-storica l’sola dei Feaci corrisponderebbe all’odierna Corfù, per altri alla Sicilia, alla Calabria, alla Sardegna, ecc., ma quello che qui interessano sono le osservazioni e le informazioni raccolte di prima mano, a Ischia, dall’autore francese, in particolare per quanto riguarda il torrente sulle sponde del quale Ulisse, svegliatosi dopo il naufragio, incontrò per la prima volta Nausica: “…la Lava, che scende dall’Epomeo per gettarsi in mare a uguale distanza dalle punte Perone e del Pozzo” (pag. 118); “…Attualmente il torrente al quale conduciamo il nostro eroe è privo di una notevole parte delle acque che le aveva dato la natura. La sua sorgente principale, che sgorgava dal Buceto, è stata captata, alla fine del XVI secolo, per alimentare la città d’Ischia; venti anni fa altre quattro sorgenti, provenienti dalla stessa regione, lo sono state a loro volta per servire Casamicciola.  Formerebbe ancora al giorno d’oggi, al sortire dalle valli Ombrasco e Oliva, un ruscello presentabile, se non l’avessero trasformato in fogna coperta nella parte inferiore del suo corso e se non fosse stata inquadrato fra due edifici: il Monte della Misericordia sulla riva destra, e l’Orfanatrofio sulla riva sinistra” (pag. 119); “ …l’appellazione moderna Lava (torrente) è un nome comune” (pag 120);  “…Questo nome di Lava vuol dire torrente, e non lavatoio. A Ischia le domestiche e le lavandaie del XX secolo si servono delle acque più vicine, e spesso delle acque delle loro cisterne” (pag. 338 in nota); “…la principale sorgente della Lava…fuoriesce dall’Abuceto di Jasolino” (pag. 341 in nota).

            Grazie a un successivo commentatore, possiamo conoscere lo stato del “fiume dell’incontro”, cinquant’anni dopo le descrizioni di Champault: “…Il bel fiumicello si spande in Casamicciola a sei chilometri dalla Città alta; è una abbondante vena d’acqua termo-minerale. Sfocia in riva al mare, in vicinanza del Pio Monte della Misericordia. Andando per la strada che mena a Piazza bagni si ha modo di ammirare l’ampio alveo col greto asciutto. In altri tempi il volume delle acque era più abbondante. Scendeva dalle selve dell’Ombrasco. Ed è venuto all’impoverimento in grazia delle deviazioni verso una moltitudine di stabilimenti termali, in sviluppo sempre crescente” (BUONOCORE 1957).

            Nel giro di qualche decennio, il “fastidio” derivato dagli alvei ormai in secca, viene “risolto” trasformandoli in strade e tombando le scarse acque residue senza tener conto dei ricorrenti eventi di eccezionale piovosità, come abbiamo letto in ORTOLANI 2009. L’ultimo tratto fu trasformato nell’odierna Via del Monte della Misericordia, che qualche vecchio ancora chiama “Via della Lava”.   Un abitante di Casamicciola,  miracolosamente scampato alla violenza della  “lava” che lo aveva travolto in questa via, concludendo il racconto della sua disavventura, osserva: “…se lungimiranti furono coloro che, a fronte della costruzione di una strada sul fiumiciattolo della “lava”, lasciarono libero l’alveo sotto la strada stessa, non lo sono stati coloro che in seguito non hanno controllato l’entrata della “caverna della cosiddetta lava” che è stata ostruita ormai quasi del tutto e che nell’occasione del disastro del 10 novembre scorso non ha aiutato l’acqua a defluire verso il mare” (AMALFITANO  2009, pag. 6)

            SANTO et AL., che analizzano specificamente “l’alluvione improvvisa del 2009 e il pericolo futuro” ignorando la precedente relazione Ortolani, ci dicono: “…nell’area urbana i corsi d’acqua del Puzzillo, Ervaniello e Sinigallia si uniscono in un singolo canale sotterraneo con sbocco direttamente in mare…la limitata sezione del canale nel punto di partenza della parte sotterranea causò la sua ostruzione durante l’evento alluvionale, creando immensi problemi…Infatti, il flusso d'acqua invase l'area urbana e si incanalò lungo le strade che giungevano al mare lungo via Monte della Misericordia. Questa via divenne l'unico collettore perché delimitata lateralmente dai muri delle case” (pag. 8); e per ridurre i rischi futuri propongono, tra l’altro, il “…rifacimento delle opere idrauliche (sbarre e argini fluviali), compresa la loro manutenzione periodica” (pp. 16-17).

            Nei successivi elaborati dell’Autorità di Bacino e dell’ISPRA il 60% del territorio di Casamicciola è definito a elevato rischio idraulico e rischio di frana per l’instabilità dei versanti. In particolare: “…le fenomenologie franose… sono in grado di trasportare verso il fondovalle grandi quantità di massi e tronchi. Nonché, laddove presenti lungo il percorso di propagazione, autovetture e materiale antropico in generale. La grande energia messa in gioco da tali flussi è in grado di danneggiare i fabbricati e le strutture con essi interagenti. Provocandone, occasionalmente, la completa demolizione”.  In una delle cartine pubblicate dall’Istituto superiore per la Protezione Civile e la Ricerca Ambientale la “Via Celario” è individuata come area ad elevato rischio smottamenti e alluvioni; in particolare:  “…gli impluvi presentano numerosissime interferenze con opere antropiche dell’urbanizzato, quali tombamenti, edificazioni e strade alveo, che generano numerose criticità e singolarità idrauliche”.  Intanto il Governo aveva stanziato 12 milioni di Euro per mettere in sicurezza il “dissesto idrogeologico nell’area”; nel 2012 il Commissario nominato ad hoc venne sostituito da un altro che, quattro anni dopo, tra mille difficoltà burocratiche e interferenze varie, portò a compimento un progetto di interventi che, per essere attualizzato, necessitava del parere della Regione; il parere arrivò dopo un anno e mezzo e, finalmente, a metà agosto del 2017, il soggetto attuatore dei lavori venne individuato nel Comune; il terremoto del 21 agosto, che provocò 2 vittime, 42 feriti  e il crollo di alcune case, seppellì definitivamente il progetto.

            Il “Rio della Lava” ricompare fugacemente come un ectoplasma, evidentemente evocato dalla consultazione di vecchie mappe catastali, nella premessa della “Relazione Illustrativa Preliminare del Piano Urbanistico Comunale” che deve porre rimedio ai danni provocati dal terremoto; vi si legge, infatti: “…il Rio Lava accoglie le acque della valle dell’Ombrasco, la valle della Sinigaglia e la valle Fasaniello, mentre le acque provenienti dalle pendici del monte (zona Pizzone e cava Montecito) defluiscono nell’asta torrentizia della Gran Sentinella” (AA.VV. 2020, pag. 2).  Il Piano, approvato nel marzo 2021, era stato predisposto da un gruppo di architetti “…con particolare attenzione alle dimensioni del rischio territoriale dei comuni di Casamicciola Terme e Lacco Ameno”, ma è focalizzato soltanto sul rischio sismico e prevede, “…nell’ottica di sostenere e rilanciare lo sviluppo commerciale e turistico della città”, la ricostruzione degli edifici crollati e “…il recupero degli stabilimenti termali in disuso che dovranno reimmettersi nel circuito economico legato al turismo e andare ad integrare la rete di valorizzazione delle risorse naturali appartenenti all’isola” (Id. pag. 53).  Appena appena si accenna alle “…aree interessate da rischio frana elevato e molto elevato” (Id. pag. 50), per le quali si sostiene, genericamente: “…interventi di riqualificazione volti al ripristino della naturalità dei luoghi lungo le aste torrentizie, faranno in modo da mitigare il rischio lungo la rete idrografica” (Id. pag. 53). Quella specifica di Casamicciola, stando alle premesse, non dovrebbe avere difficoltà a confluire in mare attraverso il Rio della Lava (scomparso da decenni).

            Il Piano e i provvedimenti antisismici saranno poi interrotti, e la prospettiva completamente ribaltata, a seguito dell’alluvione del novembre 2022 che ha fatto molte più vittime e ha provocato molti più danni del terremoto.

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            Come ampiamente argomentato in un precedente lavoro (PIPINO 2022), proprio nel versante del Monte Epomeo che domina Casamicciola si possono riconoscere, e sono state storicamente utilizzati, diversi tipi di sedimenti argillosi, geneticamente riconducibili a due classi fondamentali, argille sedimentarie marine e prodotti caolinici-alluminosi derivati dall’alterazione idrotermale e fumarolica di rocce vulcaniche.

            L’argilla sedimentaria marina si presenta sotto forma di uno o più strati compatti di aspetto marnoso, a giacitura sub-orizzontale, alternati a livelli sabbiosi pure di origine marina, per uno spessore complessivo  che può variare da pochi metri a 40 circa, il tutto a costituire quella che oggi viene chiamata “Unità di Cava Leccie” (AA.VV. 2010, pag. 94; AA.VV. 2011, pp. 105-106).  Il materiale argilloso è costituito da prevalente frazione limosa (fino al 50%) con argilla (mediamente 30%), sabbia (intorno a 20-30%), poca ghiaia (c. 2-4%), e presenza di quarzo, anche detritico, e di carbonato di calce (calcite e minore dolomite). I minerali componenti l’argilla sono stati riconosciuti in illite-smectite, caolinite e clorite; il contenuto di carbonato, che può variare dall’8 al 15%, è dovuto all’abbondante presenza di gusci di macro e microfossili, riscontrabile anche nei livelli sabbiosi alternati. La sequenza argillosa si sarebbe formata nel Pleistocene superiore, fra 55.000 e 10.000 anni fa, a profondità (marina) variabile da 120 a 70 metri, e sarebbe poi stata coinvolta nel sollevamento dell’ Horst del Monte Epomeo fra 20.000 a 6.000 anni fa, circa.

            Il sollevamento, di circa 700 metri, seppure lento non è stato indolore.  Infatti, nel corso dell’emersione e degli assestamenti successivi, ancora in atto e denunciati dai ricorrenti terremoti, l’intera “unità” è stata suddivisa in diversi “gradoni” lungo imponenti faglie con direzione est-ovest,  i quali sono stati ancora spezzettati e dislocati verticalmente da faglie con direzione nord-sud. Il tutto continuamente ricoperto da materiali detritici prodotti dai terremoti e dagli eventi meteorologici, nonché, nella parte orientale, da materiali vulcanici “recenti” (M. Tabor). Ne risulta la presenza, seppure nascosta, di corpi argillosi più o meno continui nella fascia collinare sopra Casamicciola, a quote che vanno da una cinquantina di metri fino a circa 500 nella località tipo  (Cava Leccie), poco ad est della vetta dell’Epomeo.  In passato tale assetto strutturale era stato intuito dai cavatori dell’argilla utilizzata per la locale industria figulina, indirizzati anche dalla presenza di risorgive sulle superfici argillose impermeabili.

            Appare ovvio che, in determinate condizioni, l’argilla e i sedimenti sabbiosi che l’accompagnano, poco coerenti, possono concorrere all’instabilità dei versanti e all’arricchimento alla massa fangosa e detritica che scende a valle dopo ogni pioggia consistente.  Vero è che gli strati argillosi sono piuttosto compatti e consistenti, ma è pur vero che le acque circolanti e stagnanti sulla loro superficie la rende scivolosa e può provocare lo slittamento della copertura, per l’effetto “saponetta”.  Ed è quello che si è verificato in un settore della Cava Celario dove, come dimostrano alcune foto pubblicate in blog locali, nel corso dell’ultima alluvione è emersa la superficie di un vistoso banco argilloso che, in precedenza, era in gran parte coperto: è un peccato che non siano stati raccolti elementi geognostici, i quali avrebbero potuto anche chiarire alcune discrepanze interpretative emerse in precedenza (PIPINO 2022, pp. 24 e 30).

            Gli strati argillosi, e le sabbie che li accompagnano, hanno un ruolo importante, e misconosciuto, nel determinare l’instabilità del versante settentrionale del Monte Epomeo, il quale, se non si interviene in maniera radicale, sembra naturalmente destinato a seguire le sorti di quello meridionale. Come noto, infatti, il versante meridionale dell’Epomeo è stato particolarmente interessato da imponenti frane e colamenti di materiali che sono scesi fino alla costa e si sono spinti per qualche diecina di chilometri in mare, lasciando quella enorme conca (detta di Fontana) che in passato era vista come parte interna residuale di un grande cono vulcanico. Nella parte più alta, e integra, in località Toccaneto, è segnalata l’affiorare di strati di argilla sedimentaria che paiono essere in continuazione di quelli di Cava Leccie, mentre non ne è nota la presenza nella zona sottostante, dove non si registrano attività storiche di estrazione e di utilizzo.  Però l’argilla è abbondantissima in questo versante, dove è stata riconosciuta come parte fondamentale del materiale detritico che lo ricopre ed è inciso dai locali canaloni-cave.  Per BORTOLUCCI et AL. (1984, pp. 259-261), la base del materiale detritico che riempie le cave è composta “…prevalentemente da piccoli frammenti di Tufo Verde e delle tufiti e argille sottomarine originariamente situate a tetto di quello”.  In un caso è segnalata la presenza di marna argillosa, presumibilmente in posto, nell’incisione sottostante il vecchio villaggio di Torzano, presso Bonopane, “…abbandonato negli anni 60-70 del Novecento perché continuamente soggetto a frane nel canalone sottostante”; in altri casi l’argilla è segnatamente indicata come fossilifera (PIPINO  2022, pp. 15-16).

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               Accanto a quella sedimentaria, e spesso confusi con essa, ci sono, e sono stati riconosciuti, specie nel versante settentrionale dell’Epomeo, differenti tipi di argille derivate dall’alterazione vulcanica e idrotermale delle rocce affioranti. “Il grado di alterazione argillitica idrotermale è legata a vari fattori, quali chimismo e temperatura del fluido alterante, tipo, intensità e durata del fenomeno, profondità alla quale avviene, natura delle rocce interessate. Per quel che ci riguarda, possiamo osservare, specialmente, i fenomeni indotti dalle fumarole sui tufi trachitici superficiali: in quelli a basse intensità i prodotti argillosi prevalenti sono montmorillonite e illite, con cloriti e scarso caolino, ai quali possono associarsi ossidi di ferro, solfati, zeoliti e altri minerali; in quelli ad intensità più alta e più duratura si ha formazione di un prodotto caolinico-alluminoso di colore biancastro, localmente arrossato dalla presenza di ossidi di ferro” (PIPINO 2022, pag. 29).  Limitati fenomeni di alterazione in atto sono particolarmente visibili in corrispondenza delle fumarole di M. Cito, da tempo oggetto di studi specifici per la loro peculiarità: secondo recenti analisi chimiche, il prodotto argilloso di alterazione è prevalentemente costituito da  “kaolinite”, al quale si associano prodotti alluminosi, zolfo e solfati di alterazione (Id. pag. 32).

            Più estesi sono i depositi formatisi in tempi passati e affioranti nelle vicine zone del Bianchetto e della Falanga, rispettivamente a nord e ad ovest della cima dell’Epomeo, che sono stati oggetto di intensa estrazione, in tempi passati, prima per la fabbricazione di mattoni e altri prodotti per l’edilizia, poi, dopo opportuna depurazione, per “…fabbrica di stoviglie, ed altri oggetti di cretaglia”, infine per essere utilizzati come additivi di cementi speciali: da analisi eseguite nel corso di queste ultime utilizzazioni, negli anni ’30 del Novecento, il “Bianchetto o tufo bianco di Ischia” risultava essere costituito da “miscugli di silice amorfa, caolino, alunite sanidino inalterato proveniente dalla roccia madre” con “ piccole quantità di solfuri (pirite) e di solfati solubili”, localmente da “materiale caolinico notevolmente puro” (PIPINO 2022, pp. 30-32).

            In passato sono state anche estratte, specie in località Catreca, concentrazioni di alunite all’interno dei depositi di bianchetto, per la fabbricazione dell’allume (PIPINO 2009; 2023).

            Data la sua scarsa coesione superficiale, il “Bianchetto” è normalmente soggetto a franamenti, e ne sono segnalati, in epoche recenti, sia a Monte Cito che nella zona tipo. Già DE SIANO (1801, pp. 12-13) aveva notato che “…in Catreca si riscontra della terra argillosa bianca” e che “…il masso è di lava dura nell'interno, la superficie è in decomposizione e da qualche tempo ha incominciato a crollare, come infatti la sera de' 14 Dicembre 1797 ad ore 4 in 5 crollò in due lati assai declivi con danno notabile delle sottoposte vigne del territorio di Casamice”; più tardi MORGERA (1890, pag. 317), riprendendo la notizia dell’autore precedente, aggiunge: “…altri franamenti si sono verificati posteriormente presso Montecito e al Fango senza scosse di terremoti e con piccole piogge; ed ancora oggi, ogni qualvolta si scava per poco sui fianchi dell’Epomeo, subito si verificano le frane”.   DEL PRETE e MELE (2006), dopo aver ricordato il franamento dei “numerosi massi di Tufo verde” (pag. 38), riconoscono che la “…documentata ripetitività spaziale e temporale di un’area in dissesto è rappresentato dall’evento di colata che coinvolge i depositi caratterizzati da scadenti proprietà geotecniche, per processi di alterazione fumarolica e idrotermale, affioranti in loc. Montagnone, a ovest di Monte Cito” (pag. 40): infatti, per le alluvioni del 24-25 luglio 1999 e del 14-15 settembre 2001 segnalano espressamente, tra i materiali franati, “depositi detritici a luoghi fumarolizzati” (Tab. 1, nn. 57 e 65).

            Riguardo alla Falanga, dove pure è segnalata l’estrazione del bianchetto in tempi recenti, per tempi più antichi BUCHNER P. (1943, pp. 55-56) ritiene che questa “…specie di pianura…da tre lati circondata da alte pareti” sia il risultato di una grossa frana che, in parte, ha raggiunto il mare.

            Per il versante meridionale, come detto, tutti gli autori concordano nel riconoscere l’abbondanza dell’argilla nei canaloni (cave) e, in taluni casi, sostengono che di tratti di “…piroclastiti fortemente argillificate per alterazione idrotermale” (AA,VV. 2010, pag. 93; AA.VV. 2011, pag. 79), in netto contrasto con precedenti interpretazioni (PIPINO 2022, pp. 16-17).

            L’argillificazione ha ovviamente interessato anche i limitati lembi di suolo agricolo che coprono alcuni terrazzi delle colline soprastanti Casamicciola, e qui il normale processo pedogenetico è magnificato dal calore superficiale che caratterizza l’intera isola, fino ad assumere carattere di alterazione idrotermale, più o meno spinta, in corrispondenza delle fumarole evidenti ed occulte. In passato tali suoli erano intensamente coltivati e i contadini provvedevano alla loro “sistemazione idraulica” e alla messa in sicurezza delle sponde: col parziale abbandono delle attività agricole è ovvio che anche questi terreni concorrano al generale franamento dei versanti.

  

  Figura 1

Il reticolato idrografico di Casamicciola: a sinistra nella carta allegata all’opera di IASOLINO 1588 (pubblicata con il nord in basso), a destra nella carta delle frane storiche pubblicata da DEL PRETE e MELE 2006 e ripresa tal quale, e delimitata, da SANTO et AL. 2012.  Nella prima, il sub-bacino idrografico occidentale è costituito essenzialmente dai valloni (detti localmente cave) di Sinigallia e di Negroponte (o dell’Umbrasco), con un piccolo accenno, alla loro confluenza, di un valloncello che prende il nome dai bagni Cotto o Cajonche: questo, molto cresciuto, è indicato come Cava Celario nella seconda carta, ma è da avvertire che storicamente è indicato come Bagnofresco e, nella carta IGM del 1890, come Cava dell’Ulivo, dal nome della collina da cui scende.  Col tempo, e col procedere dell’erosione laterale, il vallone di Negroponte si scinde in due e la confluenza con quello di Senigallia si sposta a valle: nella seconda carta non è indicato il nome del ramo occidentale, generalmente chiamato Ombrasco, mentre quello orientale, indicato come Ervaniello, è chiamato Fasaniello nella carta del 1890. L’ultimo sub-bacino, appena accennato nella prima carta, è molto sviluppato nella seconda ed è indicato come Cava Puzzillo, nome che si ritrova anche nella carta del 1890.  I primi due sub-bacini si incontrano in Piazza Bagni e, poco dopo, ricevono le acque di alcune risorgive locali, in particola quella del Gurgitello che, in alcuni autori, da’ il nome all’intero bacino (MORGERA 1890, pag. 3).  Poco a valle vi confluisce il sub-bacino del Puzzillo.  Il “torrente” così formato, che scorre verso il mare, non è nominato, non solo nelle due carte, ma, stranamente, nemmeno da pressoché tutti gli autori che hanno scritto di Ischia e delle sue terme, cosa derivata, forse, dalla strana e incomprensibile (per loro) denominazione popolare: Rio della Lava: sebbene ben delineato anche nella seconda carta, questo, in effetti, è da tempo tombato e l’alveo trasformato nella moderna Via Monte della Misericordia.  Stessa cosa per la parte finale dei principali sub-bacini.

Nella seconda carta sono indicati, con simboli diversi, differenti tipi di depositi franosi lasciati da episodi precedenti al 2006: cerchi=colate;  quadrati=frane complesse; triangoli=crolli; pentagono=scoscendimento rotazionale;  delimitazioni irregolari=colate e scoscendimenti di maggiori dimensioni:  le date di questi si riferiscono ad eventi storici accertati. 

 

 

 Figura 2

A sinistra, residui della “Lava dei Vergini” il giorno dopo il nubifragio del 22 ottobre  1952 (Archivio Carbone). A destra residui della “lava” in una delle strade di Casamicciola giorni dopo l’alluvione del 26 novembre 2022 (foto UrbanPost).  La maggior altezza di quest’ultima, come si vede, è dovuta anche all’ostruzione da parte di automobili: tra le ovvie quanto inascoltate raccomandazioni seguite all’evento precedente, c’era anche quella secondo la quale “le auto dovrebbero essere parcheggiate prima dell'evento in luoghi sicuri, come normalmente previsto dai piani comunali di protezione civile” (SANTO et AL. 2009, pag. 17).

 

BIBLIOGRAFIA CITATA

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Giuseppe Pipino  
LA MINIERA DI PIOMBO ARGENTIFERO
DI CASTELNUOVO DI CEVA
NELLE ALPI MARITTIME, E LA SUA STORIA

 

Le Alpi Marittime sono in gran parte costituite dalla così detta “Falda del Gran San Bernardo” che comprende un complesso di rocce cristalline e carbonatiche molto metamorfosate, di età compresa tra il Permiano e il Carbonifero medio (Basamento pre-wastfaliano), un complesso di rocce parasedimentarie e conglomeratiche paleozoiche con effusioni vulcaniche più recenti (Permo-carbonifero assiale), e un complesso di rocce flyscioidi e carbonatiche triassiche di copertura (Zona Brianzonese).  All’interno della Falda sono sporadicamente presenti piccoli nuclei cristallini precarboniferi, prevalentemente granitici, e frequenti sono anche corpi, più o meno estesi, di calcescisti e rocce verdi, che ad est costituiscono il Gruppo di Voltri e che, procedendo verso ovest lungo l’arco alpino, assumono sempre maggiore estensione, fino a costituire la “Zona Piemontese”. 

Nelle rocce filladiche e porfiritiche del Permiano, specie al contatto tettonico con la copertura carbonatica triassica e con rocce ofiolitiche, sono spesso presenti limitate mineralizzazioni metallifere costituite da ammassi stratiformi e filoni discordanti, a ganghe quarzose, carbonatiche, baritiche e/o fluoritiche, con blenda, galena argentifera e pirite, alle quali si associano localmente calcopirite pirrotite, arsenopirite, bornite, tetraedrite e minerali di ferro e di rame d’alterazione. Anche l’oro è localmente presente, in tracce prevalentemente contenute nella pirite e altri solfuri, talora allo stato nativo nella zona di alterazione superficiale: una analisi del minerale di Priola, eseguite nel corso di ricerche minerarie, aveva evidenziato un contenuto di 0,15 ppm (o gr/T), “…alcune scagliette d’oro” erano state trovate “…in uno dei rivi che attraversano il giacimento”, mentre nel Tanaro, fra Ceva e Lesegno, erano stato raccolto “…circa mezzo grammo d’oro, parte del quale in scagliette con diametro superiore al millimetro” (PIPINO 1981, pag. 37).  

Non a caso si registra la presenza, poco a monte di Ceva, della località Valoria, toponimo  diffusissimo in tutto il Piemonte, già indicato in documento medievali e, spesso, legato a sicure presenze aurifere e ad antica raccolta: è il caso, ad esempio, del torrente Stura di Ovada e della bassa Val d’Orba (PIPINO 2014, pag. 15).  

 Agli inizi del ‘500 Raffaele da Volterra affermava che nel fiume Tanaro “…Antonino Trotti, cavaliere alessandrino, raccoglie pagliuzze d’oro con le quali è fatta la collana che porta” (VOLATERRANI 1511, F. XXXV v.): questa citazione va ovviamente riferita alla bassa valle, dove l’oro si trova in particelle minuscole, e può anche riferirsi all’Orba, torrente notoriamente aurifero tributario della Bormida che confluisce subito nel Tanaro, tenuto anche conto che “il cavaliere alessandrino” era di Casal Cermelli. Per DELLA CHIESA (1635, pag. 10) l’oro si raccoglieva in tutto il corso del Tanaro, “…massime nel marchesato di Ceva”. Le mie ricerche avevano accertato tale presenza, sotto forma di particelle minutissime fin oltre Alba, più consistenti nei pressi di Ceva (PIPINO 1981, pag. 37).

Le mineralizzazioni primarie più note, oggetto di antiche coltivazioni, si trovano nel Savonese marittimo (Balestrino, Giustenice, Rialto, Montagna, Segno, Quiliano Argentiera di Savona), nelle alte valli del fiume Bormida (Bormida, Bardineto, Calizzano, Murialdo, Cosseria), nell’alta valle del fiume Tanaro (Ormea, Garessio, Priola) e dei suo affluenti montani (Perlo, Castelnuovo di Ceva, Priero, Lisio, Viola, Pamparato, Roburent, Monasterolo, Mombasiglio, Frabosa sottana, Peveragno).

E’ possibile che alcune delle manifestazioni siano state oggetto di sfruttamento in epoca preistorica, ma mancano precise attestazioni e testimonianze materiali. Per quanto riguarda il territorio ligure, le prime evidenze descritte per la manifestazione di Murialdo-Pastori (PIPINO 2005) diedero l’avvio a collaborazioni con la Soprintendenza Archeologica della Liguria, sfociate in alcune pubblicazioni riguardanti l’alta valle Bormida (PIPINO 2007) e il “castelliere” di Bergeggi (DELFINO e PIPINO 2009).  

Per l’alto Medioevo, al momento è solo ipotizzabile l’interesse  per il giacimento di Viola, dove nel 1262 è attestata la località “piombera” (PIPINO 2010, pag. 11). Per il Medioevo più basso si hanno precise testimonianze storiche di coltivazione della “miniera” di Rialto (PIPINO 2015). Per le altre manifestazioni, specie per quelle dell’alta Val Tanaro, testimonianze storiche certe iniziano nel XVI secolo e alcune potrebbero riguardare il giacimento di Castelnuovo, seppure non specificamente indicato.

Un documento della Famiglia Ceva, raccolto con altri nella Biblioteca Universitaria di Genova, attesta che il 19 agosto 1579 fu rilasciata, al marchese Agamennone di Ceva, la concessione per scavare “certe miniere”, delle quali aveva avuto notizia (v. copia).  Fra il 1678 e il 1679,  “ Il sacerdote Francesco Peyre, che ha iniziato lo scavo di alcune miniere nei territori di Lisio, Priola e Garessio…si obbliga a versare al duca (Carlo Emanuele II di Savoia) 3.000 lire all’anno per il privilegio di scavare miniere nel Marchesato di Ceva…si impegna a versare il 5% del minerale estratto, rimettendosi alla generosità del duca per l’esenzione nei primi anni, come d’uso, o a consentirgli di entrare in società dopo la verifica dei filoni scoperti “ (PIPINO 2003, pag. 76; 2010, pag. 120).  Il 9 marzo 1702 Gaspare Deriva e figlio ottennero la concessione di tutte le miniere di rame e piombo che avessero trovate, in particolare, “…nelle valli di Stura e Di Gesso, nella provincia di Cuneo, e di Lisio nel Marchesato di Ceva, per 10 anni”: il duca concesse un anticipo per le spese, di “L. 10 mila pagabili nel primo e secondo anno, e restituibili con il piombo ricavato” (PIPINO 2010, pp. 72, 173, 270). 

Di certo sappiamo che, a Castelnuovo, durante lavori minerari eseguiti in periodo napoleonico furono individuati “…lavori antichi attestanti che queste miniere sono già state coltivate: la tradizione del paese non ne ha conservato alcun ricordo, e s’ignora il motivo per cui furono abbandonate” (CHABROL DE VOLVIC 1824, pag. 47). In effetti, come scrive l’ingegnere francese Gallois nel maggio 1809, il passato governo piemontese “non è mai stato disposto a far coltivare miniere presso gli stati liguri”, e quella di Castelnuovo si trova, a sud del paese, proprio al confine con la Liguria (e col comune di Murialdo).

* * * * *

 

  Giuseppe Pipino

      L’ALLUME D’ISCHIA E I MARCHESI DEL VASTO (E DI PESCARA)

 

            Nell’elenco sommario dell’Archivio privato della famiglia d’Avalos di Napoli, pubblicato poco più di 10 anni or sono, troviamo, al numero 1352: “Copia informe della donazione della lumiera d’Ischia fatta da Ferdinando d’Aragona” (LUISE 2012, pag. 220).  I documenti, dopo alcune vicissitudini giudiziarie, sono stati affidati all’Archivio di Stato di Napoli e sarebbero “in fase di ordinamento e tuttora fuori consultazione”, come cortesemente comunicatomi dalla Direzione.  E poiché, come è noto, sono andati perduti i registri Privilegiorum del periodo aragonese che ci interessa, non è possibile, al momento, verificare alcune discordanze emergenti dalla bibliografia.

            Ricavo un primo accenno sull’interessamento di un nobile d’Avalos all’allume di Ischia da una dettagliatissima cronaca dell’impresa di Consalvo di Cordova, scritta da un “ cronista del Regno d’Aragona”: nel 1503 si era presentato, davanti al “Gran Capitano”, “…Don Inigo de Avalos Marchese del Vasto…molto incline a mostrarsi spagnolo, e molto nemico della gente francese, desiderava servire il re…chiedeva che il re gli concedesse il governatorato di Ischia, in tempo di guerra e di pace, con la tenenza della fortezza, come gli fu concessa da re Federico, per tutta la vita, con tutte le rendite dell’isola, con i castelli e con le miniere d’allumela nuova concessione dell’sola di Procida come la teneva Michele Cossa” e altri privilegi e rendite a favore suo, della sorella Costanza contessa di Acerra, del nipote Ferdinando, riconosciuto Marchese di Pescara in base alle vicende familiari, e dell’altro nipote Giovanni d’Avalos di Aquino (CURITA 1580, pp. 272v.-273). Un cronista napoletano, contemporaneo dei fatti, aveva dato, dell’evento, notizia più stringata ma meglio localizzata e datata, seppure con una piccola incongruenza cronologica:  “Ali 14 di maggio 1503 è venuto in Napoli lo signore Marchese de lo Guasto nominato don Inico de Avalos a portare le chiavi, al signor gran Capitanio, del castello di Iscla & anche della terra.  Alli 16 di maggio 1503 di martedì sono andati li sìgnori eletti de Napoli…ad incontrare 1' Illustrissimo signore gran Capitanio di Spagna quale era arrivato a Poggio reale, & li portaro le chiavi de Napoli; dopo  ci arrivai lo marchese de lo Guasto, che le rappresentai le chiavi d’ Ischa & lo gran Capitanio a quello abbracciò molto strettamente” (PASSARO 1765, pag. 138).  Più preciso è un altro cronista napoletano del Cinquecento, secondo il quale “…a li 14 de magio vende il marchese de lo guasto da Yscha et portò le chiave de Yscha al gran capitanio nomine Consalvo ferrando , lo quale stava con lo exercito allo Gaudello, perchè haveva seguitato la victoria et veniva per ponere campo in Napoli” (FUSCOLILLO 1876, pag. 74).